Pompei: 2.0

di Leonardo Suvieri e Mario Bucaneve, della redazione de La Siringa, liceo G. Alessi di Perugia

La catastrofe di Pompei è pronta per ripetersi. L’antica città costruita dai romani migliaia e migliaia di anni fa fu vittima, insieme ai sui cittadini, dell’eruzione vulcanica del Vesuvio, vulcano alla cui pendici era stata edificata. Secondo studi dalla INGV, di Roma, e IAMAC-CRN, di Napoli, con l’ausilio dei più importanti centri di studi di geologia e vulcanologia del mondo, sembrerebbe che entro trenta/quaranta anni l’aumento della temperatura esterna del pianeta inizierà a influenzare i moti convettivi all’interno del nostro pianeta. Questo perché i raggi solari, che rimangono “intrappolati” all’interno dell’atmosfera terrestre a causa dei sempre più numerosi gas serra presenti in essa, riscalderanno in modo esponenziale la crosta terrestre. La conseguenza più grande e catastrofica di questo fatto è che ci sarà un innalzamento delle temperature interne della terra e anche all’incremento dei moti convettivi del magma terrestre. Ciò porterà a eventi catastrofici come terremoti, di livello non inferire al 8, e nella peggiore delle ipotesi eruzioni vulcaniche da “vecchi” e “nuovi” vulcani. Come l’antica città romana, ora le attuali città del mondo sono quindi minacciate dalla forza incontrastabile di madre natura che cerca di punirci per i gravi danni che con i nostri eccessi e il nostro comportamento le infliggono giorno dopo giorno

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World Water War, 111 guerre da climate change in mezzo secolo

di Leonardo Suvieri, redazione La Siringa, liceo scientifico Galeazzo Alessi di Perugia

wwwDalla seconda guerra mondiale i cambiamenti climatici sono stati la causa di ben 111 guerre nel mondo. Di questi, tra i 79 ancora in corso, ben 19 sono considerati di massima intensità. Strettamente connessa ai cambiamenti climatici è quindi l’eventualità di conflitti per le risorse energetiche e naturali, in particolare per l’acqua. Infatti, dagli studi del World Watch Institute, l’alterazione delle precipitazioni potrebbe accrescere le tensioni rispetto all’uso dei corpi idrici condivisi e aumentare la probabilità di conflitti violenti . Si stima che circa 1,4 miliardi di persone già vivono in aree con problemi legati all’approvvigionamento idrico, un numero che al 2025 potrebbe arrivare fino a 5 miliardi se non vengono bloccati i crescenti problemi del riscaldamento globale e della desertificazione.

Si stima anche che l’impatto dei cambiamenti climatici potrebbe portare a ondate migratorie, minacciando la stabilità internazionale. Si pensa che entro il 2050, ben 250 milioni di persone potrebbero fuggire da aree vulnerabili dall’innalzamento del livello del mare, dall’aumento del numero di tempeste o di inondazioni, o da aree formate da terreni agricoli diventati troppo aridi per coltivare. Sappiamo dall’esperienza che la migrazione verso le aree urbane ha messo sempre sotto pressione i servizi e le infrastrutture, alimentando la criminalità o le insurrezioni, mentre la migrazione attraverso i confini ha spesso portato a violenti scontri per la terra e le risorse.

Conflitti come quello civile in Siria sono un perfetto esempio di questo fatto. In questa zona, appunto, fra il 2006 e il 2011 si è verificata la siccità più lunga e la perdita di raccolti più grave mai registrate fin dai tempi delle prime civiltà nella Mezzaluna fertile. Su 22 milioni di abitanti, oltre un milione e mezzo è stato colpito dalla desertificazione, che ha provocato massicce migrazioni di contadini, allevatori e famiglie verso le città. Un altro esempio di conflitti causati da scontri per le terre e le risorse sono la guerra civile in Darfur, lo scontro tra le fazioni di Jikany Nuer e Lou Nuer nel Sud del Sudan per il controllo delle scarse risorse idriche, o i conflitti legati alla costruzione della diga Sardar Sarovar sul fiume Narmada in India. Solo per citare alcuni casi da un lungo elenco di tragedie e catastrofi che secondo gli ultimi dati del UNHCR si stima possa generare fino a 250 milioni di rifugiati ambientali entro il 2050.

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In conclusione possiamo dire che, con l’intensificazione dei cambiamenti climatici e soprattutto le variazioni sui livelli di approvvigionamento idrico delle varie zone terrestri porterà alla formazione di conflitti in tutte le zone del mondo più colpite da questo problema.

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Il pianeta Terra “piange”

di Camilla Lisotti, 13 anni, classe III A, Istituto Comprensivo Tiberio Gulluni di Colonna (Roma)

Da quando sono piccola, amo sfogliare libri e giornali ed una delle immaginiFoto 2_ 1455128261462 della natura che mi piace guardare sono i ghiacciai. Hanno un fascino incredibile, quasi magico: una massa bianca gelida che è il risultato di anni di nevicate.

Da un po’ di tempo programmi televisivi, riviste, telegiornali hanno richiamato la mia attenzione con espressioni come “global warming”, “effetto serra”, “scioglimento dei ghiacciai” e devo ammettere che, purtroppo, la situazione è molto preoccupante, perché riguarda il nostro mondo futuro.

Proprio ieri sera, mentre guardavo il telegiornale, ho visto un servizio in cui si sottolineava come questo inverno sia il meno piovoso degli ultimi 250 anni e che tutti i laghi ed i fiumi sono al livello minimo. Non nevica, eppure siamo a fine gennaio, le nostre splendide montagne sono verdi e quelle strisce di bianco che si vedono altro non sono che neve sparata per mandare avanti l’economia dei paesi di montagna.

Le statistiche ci dicono che l’aumento della temperatura globale negli ultimi 150 anni è pari 0,8° C, con una previsione di aumento di 2° C in più rispetto all’epoca precedente alla rivoluzione industriale.

Il pianeta Terra “piange”. Piange perché l’uomo lo sta distruggendo e non ha rispetto della natura. Nella mia infanzia ho fatto molte vacanze estive in montagna e una guida alpina spiegò che il mare, la montagna e i laghi sono paesaggi bellissimi, messi a nostra disposizione dalla natura, con cui è bello entrare in contatto, ma bisogna averne rispetto e non modificarla.

L’uomo, però, cosa fa? Esattamente questo: pensa ai suoi interessi. Mi tornano in mente le tante costruzioni abusive che ho visto ai piedi di un monte o sul letto di un fiume, per non parlare della deforestazione e delle frane. Se continuiamo con questi atteggiamenti disinteressati verso l’ambiente, la natura ci distruggerà, saremo le sue vittime, sotterrate dalle acque che si innalzeranno a causa di un sempre più repentino scioglimento dei ghiacci, dalle macerie dei terremoti sempre più frequenti, perché  si è riscontrato che i movimenti delle placche tettoniche, a seguito dell’aumento della temperatura e alla forza delle precipitazioni, sono aumentate del 20% rispetto alla normalità. Tali situazioni mi fanno paura, perché sono tutte riconducibili al “global warming”, ossia al surriscaldamento climatico, il mutamento del clima terrestre sviluppatosi nel corso del ventesimo secolo e  tuttora in corso.Foto 1_ 1455128261462

Il principale responsabile del cambiamento della temperatura globale è la quantità di gas emessi nella nostra atmosfera, i quali si stabilizzano nell’aria, risultando dannosi per l’ambiente e le persone. Queste emissioni provocano il fenomeno dell’effetto serra, ossia rendono l’atmosfera molto più densa e molto meno permeabile al passaggio di calore; per questo motivo, il calore imprigionato dalla terra non viene espulso, bensì trattenuto come accade in una serra. I gas permettono alle radiazioni solari di passare attraverso l’atmosfera, ma ne ostacolano il passaggio verso lo spazio. Gli studiosi affermano che il clima sulla Terra sta mutando, perché le attività umane, le enormi emissioni di gas e la deforestazione modificano la composizione chimica dell’atmosfera.

Il cambiamento climatico comporterà delle implicazioni estremamente significative sia a carico della salute dell’uomo che dell’integrità dell’ambiente. Il clima, infatti, influenza fortemente l’agricoltura, la disponibilità delle acque, la biodiversità, la richiesta di energia  e l’economia. Il crescente aumento della temperatura sta generando mutazioni continue: la più evidente è una diminuzione delle precipitazioni che, tuttavia, si abbattono più violentemente rispetto al passato, causando danni e disastri ambientali, come è spesso accaduto negli ultimi anni.

Ho riflettuto a lungo su questo problema e ho capito che ognuno di noi può fare qualcosa, seriamente, anche nella propria casa, per non peggiorare vertiginosamente la situazione. Ad esempio basterebbe spegnere le luci nelle stanze, non lasciare le apparecchiature in stand-by, fare la raccolta differenziata, riciclare i rifiuti organici, ma soprattutto non usare le automobili e regolamentare con leggi rigide e controlli severi gli scarichi delle industrie nell’atmosfera. Ciò, sommato alle misure proposte dall’Unione Europea che prevedono di diminuire del 20% le emissioni di gas serra ed aumentare la quota delle energie rinnovabili nel consumo totale di energia, potrebbe essere un buon inizio.

E’ proprio il caso di riflettere sulle targhe alterne che, a volte, lo Stato ci impone: sindaci, politici, ci vuole così tanto a chiudere le città al traffico anche alle macchine blu e creare una città a dimensione d’uomo con mezzi pubblici efficienti? Vedremmo gente che cammina meno stressata dai clacson, che si gode la bellezza della propria città e un’atmosfera che “sorride” per il minore smog emesso.

La colpa è vostra, uomini di potere, che non volete stravolgere in meglio la vita di tutti noi. Ne conseguirebbero solo effetti positivi, ma il vostro potere, la paura di perdere consensi, l’incapacità di attuare cambiamenti vi rende immobili, tutti uguali e intanto l’aria è irrespirabile, i tassi di smog sono a livello di guardia per la nostra salute, il pianeta “piange”, lancia segnali, ma cosa c’è di peggio di chi non vuol vedere?

Data la situazione non resta che sperare nelle ricerche degli scienziati, mossi non dal potere, ma dalla loro sete di diffondere cultura. Insieme a loro potremmo urlare a gran voce il disastro imminente, incontrare questi ciechi uomini di Stato, muovere il loro senso civico  e convincerli a fare molto, molto di più. Esorto tutti a riflettere, a prendere coscienza di tale situazione. Impariamo a custodire il  bel mondo che ci è stato donato, altrimenti temo che sarà la natura a distruggere l’umanità.

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Lo scioglimento dei ghiacciai

di Aurora Torcello, 13 anni della classe III A Istituto Comprensivo Tiberio Gulluni di Colonna (Roma)

1456086748202Al giorno d’oggi, viviamo in un mondo “inquinato” dove l’aria che respiriamo non è pura, bensì alterata, contaminata, in altre parole non più salubre come lo era prima della seconda rivoluzione industriale.

Una delle cause dell’inquinamento è sicuramente l’alta concentrazione nell’aria di anidride carbonica (CO2) che causa il riscaldamento globale della terra che a sua volta provoca lo scioglimento dei ghiacciai.

Quest’ultimo  problema, di cui, ultimamente, si è discusso a livello mondiale (a Parigi) può dare origine non solo a particolari gravi e pericolosi fenomeni come  l’inondamento di intere città costiere, ma può anche provocare forti diversità climatiche tra il nord e il sud europeo, portando come conseguenza una differenza di temperature favorevoli all’agricoltura al settentrione e una disponibilità minore di acqua dolce al meridione.

Questo scioglimento può anche causare cambiamenti geografici e caratteristici ai poli. Nella foto sottostante, si può notare facilmente il cambiamento avvenuto in 28 anni ai ghiacciai del circolo polare artico.

Per fortuna, ci sono anche aspetti positivi al riguardo: le morti a causa del freddo diminuiranno insieme ai costi del riscaldamento (anch’esso causa dell’aumento della CO2) e l’aumento delle precipitazioni  favorirà le zone che soffrono la siccità.

Non è semplice trovare una soluzione ad un grave problema ma secondo me, per cercare, quantomeno, di limitare l’aggravarsi, dovremmo prestare tutti più attenzione nei piccoli gesti quotidiani come ad esempio buttando la spazzatura negli appositi cassonetti (raccolta differenziata), limitare l’uso delle macchine e tutti quei mezzi “inquinanti”, utilizzando i condizionatori con parsimonia e molti altri piccoli gesti.

Spero, e mi auguro, che l’intera umanità si possa rendere conto quanto prima di cosa sta facendo, prima che sia troppo tardi.

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Il 2015, l’ennesimo anno più caldo di sempre

di Alessandro Cascianelli, della redazione de La Siringa, IV A Liceo Scientifico “G.Alessi” di Perugia

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Intervista al professore di Scienze della Terra e giornalista scientifico Luigi Bignami sull’ennesimo primato negativo conseguito dall’anno passato.

Il 2015 è stato ancora una volta tra gli anni più caldi di sempre, il termometro infatti ha segnato un aumento della temperatura media globale di circa 1°C rispetto alla media delle temperature del secolo scorso (15°C).

Molti addetti ai lavori hanno attribuito la colpa ad El Niño, un fenomeno meteorologico che si verifica circa ogni 5 anni che porta ad un innalzamento generale delle temperature. El Niño è solo una concausa, ci sono anche moltissimi altri fattori che hanno portato per l’ennesima volta a questo triste risultato che ci deve solo far preoccupare.

Luigi Bignami, laureato in Scienze della Terra, giornalista di Focus e redattore scientifico per i telegiornali delle reti Mediaset, prova a dare qualche risposta a molte domande che in una situazione così, tutti noi dovremmo porci.

Come mai il 2015 è stato ancora una volta l’anno più caldo di sempre?

Nel 2015 abbiamo assistito ad un forte aumento della temperatura terrestre, il mese di Ottobre è stato il più caldo di sempre. Negli ultimi 18 anni però la temperatura sta crescendo più lentamente rispetto al passato e questo è comunque un segnale positivo, ciononostante il 2015 per la compresenza di due fenomeni quali l’effetto serra ed El Niño è uno degli anni più caldi di sempre da 150 anni a questa parte.

Prima del 2015 anche il 2014 era stato tra gli anni più caldi di sempre, il fatto che sia solo l’anno precedente ci deve allarmare?

Zero metri sul livello del mare

di Lucia Lenci, 29 anni di Roma, e Agnese Metitieri, 28 anni, di Rocca di Papa (Roma)

Gli esperti concordano: il cambiamento climatico è in atto e l’uomo ne è il principale artefice. Gli impatti, non ugualmente distribuiti sul pianeta e per questo difficili da percepire, sono enormi. Fenomeni di stress biofisico, legati all’aumento degli eventi meteorologici estremi, all’innalzamento del livello dei mari e alla progressiva desertificazione, mettono a rischio gli equilibri ambientali, geopolitici ed economici attuali. A risentire gli effetti maggiori di questa trasformazione saranno i paesi più vulnerabili. Tra questi alcune isole del Pacifico, che vedono la loro stessa sopravvivenza minacciata dalle conseguenze del surriscaldamento globale.

Secondo stime dell’IPCC, l’Intergovernmental Panel on Climate Change, l’aumento del livello del mare in questi piccoli stati insulari tra il 1950 e il 2009 è stato tre volte maggiore della media mondiale, crescendo di 3.2 mm in media, in rapporto agli 1.5 mm dei secoli precedenti. In prospettiva, alla fine del secolo, le precipitazioni aumenteranno del 2% ed il livello dell’acqua si innalzerà di circa mezzo metro. Se questo scenario si concretizzasse, arcipelaghi-stato come quelli di Kiribati, Vanuatu e Tuvalu, con un’altitudine media di 2 metri sul livello del mare, rischierebbero in pochi anni di essere parzialmente, se non completamente sommersi. Di questo passo, un terzo della barriera corallina è destinata a sparire. Un duro colpo anche per il settore di maggiore sostentamento economico dell’area, quello turistico, il cui volume d’affari negli ultimi anni ha subito una drastica contrazione. Proprio il turismo, lo sviluppo demografico e la costruzione di infrastrutture sulle coste hanno contribuito a rendere le isole sempre più vulnerabili. Certa è anche la relazione tra cambiamento climatico ed emergenza sanitaria dovuta alla diffusione di malattie come la febbre dengue e la malaria. Una situazione che, secondo il gruppo intergovernativo di esperti sul clima, può solo peggiorare se non si prendono ferme decisioni in rapporto alle emissioni consentite. In accordo con gli studi condotti dall’Organizzazione Meteorologica Mondiale, l’IPCC individua l’obiettivo di mantenere l’aumento della temperatura media globale entro 1,5 gradi centigradi. Questo da un lato eviterebbe che siccità, inondazioni e tifoni compromettano le attività di pesca e raccolta del corallo cui si dedicano le popolazioni degli stati insulari in via di sviluppo. Dall’altro conterrebbe i danni per la produttività agricola e la sicurezza alimentare degli abitanti. Maggiore frequenza di parassiti ed erbe infestanti, erosione del terreno e perdita della fertilità rischiano inoltre di diventare driver per flussi migratori incontrollati.

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Controllo dei danni subiti in seguito a un’inondazione nello Stretto di Torres. La mancanza di modelli in grado di fornire dati certi e a lungo termine sulla frequenza e l’intensità delle precipitazioni, sulla velocità e direzione del vento, sul livello del mare, sulla temperatura dell’oceano e sulla sua conseguente acidificazione rende molto difficile una previsione sul futuro di queste isole. (credits TSRA Torres Strait Regional Authority)

La situazione si rivela tuttavia complessa sotto diversi livelli: mancano dati certi per le piccole realtà e quelli che si hanno non sono generalizzabili a tutta l’area. Ogni isola diventa così un microcosmo per il quale è necessario trovare risoluzioni specifiche. In questo panorama, resilienza è la parola chiave. L’adattamento alle condizioni presenti e future consentirebbe di migliorare la vita delle popolazioni autoctone e di limitare, laddove consentito, la tendenza alla migrazione verso altri Paesi in risposta alla scarsità di risorse. Nelle isole Salomone e Marshall, come in molte altre nel Pacifico, mantenere la diversità agricola, puntare su energie rinnovabili, convertire le strutture per renderle più eco-sostenibili e costruire barriere adeguate, sono tra le necessità inderogabili. Adattamento non implica, infatti, accettazione passiva senza puntuali decisioni.

Secondo uno studio svolto dalla Commissione Economica e Sociale per l’Asia ed il Pacifico (ESCAP) dal 2005 al 2015 su tre isole del Pacifico, la probabilità che i residenti di Kiribati e Tuvalu si spostino è del 70% nel caso in cui il raccolto non migliori, non diminuiscano le tempeste e il livello del mare. 35% è invece la probabilità per gli abitanti di Nauru a parità di condizioni. Se nel 2055 è previsto un incremento della migrazione del 100% a Tuvalu, in alcune isole è attivo già ad oggi un programma di adattamento climatico per le comunità, che possono così affrontare questa sfida muniti di strumenti più appropriati possibile. “Con le previsioni fatte fino ad ora, le nostre isole saranno sommerse tra 100 anni. Una delle strategie è di innalzare il livello delle barriere per contrastare le inondazioni. Dovremmo spostare alcune abitazioni sulle colline, lontane dalla costa, ma questa soluzione non è applicabile a tutti gli stati insulari”, dichiara Joseph Elu, presidente dell’autorità regionale dello Stretto di Torres (TSRA) tra Australia e Papua Nuova Guinea. “Migrare non è un’opzione per ora: stiamo cercando di impegnarci il più possibile per salvare la nostra casa. Ma è necessario avere un piano di azione a lungo termine”, continua Elu.

Tracciare delle politiche sovranazionali di controllo degli spostamenti e investire in favore dello sviluppo sostenibile appare l’unica via percorribile per limitare gli effetti del cambiamento climatico e tenere in vita l’economia dell’area. A fronte dell’enorme sfida che alcuni dei suoi esponenti sono chiamati ad affrontare già oggi, il genere umano nella sua interezza dovrebbe armarsi per combattere contro gli effetti di un cambiamento epocale che lui stesso ha innescato. Una nuova guerra mondiale, questa volta senza schieramenti opposti, ma su un fronte comune. Per la salvaguardia del futuro della nostra specie.

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Gaia Hotel: “Si pregano i gentili ospiti di rispettare gli spazi comuni”

di Floriana Lecci, 21 anni, di Foggia

Campagna molisanaChi di noi non si è sentito dire almeno una volta: “Questa casa non è un albergo!”; preludio di un interminabile rimprovero per ristabilire l’ordine sull’immenso caos che possono nascondere le mura di casa. Per quanto apparentemente minacciose, queste parole hanno un significato profondo: chiamano in gioco collaborazione e impegno da parte di tutti, nelle proprie possibilità ovviamente, affinché si possa convivere serenamente nel rispetto dell’altro. Significano: non essendoci una cameriera che passerà a rifare le stanze, un receptionist pronto a esaudire ogni vostro desiderio o un barista in divisa che vi preparerà la colazione al mattino, dobbiamo tutti rimboccarci le maniche e fare in modo che i più grandi diano il buon esempio ai più piccoli.
In famiglia, e quindi in casa, c’è il primo esempio di società; è il primo posto dove s’imparano il rispetto e le fondamentali regole di convivenza civile per una società e un mondo migliore.
“La città è una grande casa e, a sua volta, la casa è una grande città” (Leon Battista Alberti).
E già, proprio il Mondo, la nostra Terra… anch’essa una casa che tutti hanno il dovere di preservare e curare.
Negli ultimi tempi però l’uomo usa, nei confronti del Pianeta, comportamenti più che deleteri: dalla rivoluzione industriale a oggi i tassi d’inquinamento, progressivamente distruttivi dell’ecosistema, stanno consegnando alle future generazioni una catastrofica mutazione climatica.
È proprio il clima, infatti, il fattore più compromesso dall’inquinamento ed è quello dalla cui violenta aggressione dipendono molti dei fragili e complessi equilibri che rendono il pianeta azzurro ospitale per gli esseri viventi.
I dati parlano chiaro: secondo un’indagine condotta dall’Ipcc nel 2007 “…le attività umane dal 1750 sono responsabili, con elevata probabilità, del riscaldamento del clima”. Da esso, infatti, dipendono i sempre più frequenti disastri ambientali (alluvioni, trombe d’aria), lo scioglimento dei ghiacciai e delle calotte polari che non solo provoca l’innalzamento del livello del mare, (dalla fine dell’Ottocento a oggi aumentato di 20cm.), ma riduce anche la disponibilità d’acqua in agricoltura.
Paradossalmente però anche l’agricoltura e l’allevamento contribuiscono a indebolire gli ecosistemi: il climatologo Luca Mercalli sostiene, infatti, che questa è stata per secoli dipendente dal clima ma che da ormai circa mille anni la produzione alimentare è diventata, a causa della quantità di energia fossile impiegata e della deforestazione tropicale, un potente fattore di cambiamento.
L’allevamento, spesso intensivo, dal canto suo è invece la prima causa del riscaldamento globale in quanto vi contribuisce con un notevole 40% in più rispetto all’intero sistema mondiale dei trasporti.
Questi gravi danni all’atmosfera innescano una serie di reazioni a catena che inevitabilmente si ripercuotono sull’essere umano; si stima, infatti, che se la percentuale di CO2 non sarà ridimensionata, tra il 2030 e il 2050 ci saranno 250.000 vittime da inquinamento in più l’anno da contare soprattutto tra bambini, anziani e le popolazioni dei Paesi più poveri; sono questi ultimi poi a subire i maggiori danni in quanto più soggetti a siccità ed eventi meteorologici estremi che minacciano conseguenzialmente gli sforzi per raggiungere uno sviluppo sostenibile ed eliminare la povertà.
Se poi aggiungiamo che questi sono spesso vittime della guerra che contribuisce in maniera sostanziale a peggiorare la situazione, il quadro assume tinte drammatiche per il futuro dell’umanità. I bombardamenti, infatti, rilasciano nell’atmosfera una quantità di CO2 tale che, sommandosi con quella già presente, porta ai livelli d’inquinamento insopportabili per la vita della Terra.
Come se non bastasse, i composti chimici presenti negli ordigni inquinano anche il suolo e le falde acquifere che, con un effetto domino, contaminano l’allevamento e l’agricoltura con gravi danni sulla salute di popoli già abbondantemente provati.
Quali le conseguenze sull’economia mondiale? I costi sulla salute, dovuti al cambiamento climatico, incideranno in maniera incontrollata poiché non ci saranno da affrontare solo le malattie direttamente collegate ma si dovrà far fronte a tutti i problemi che riguarderanno il “sistema salute”. È importante rilevare però che la metà più povera del mondo emette solo il 10% di CO2 mentre il 10% più ricco ne produce circa la metà (dati Oxfam). Inoltre questo 10% prodotto dai Paesi in via di sviluppo non è calcolabile perché emesso per produrre beni di consumo destinati a Paesi ricchi.
Contrariamente a quanto potrebbe sembrare clima e disuguaglianza economica sono strettamente connessi; come ha detto James Hansen, in sede del World Economic Forum del gennaio 2013, le due sfide del secolo sono proprio il superamento della povertà e la gestione dei cambiamenti climatici, “…se falliamo in una, non avremo successo nelle altre. I cambiamenti climatici non gestiti di-struggeranno il rapporto tra l’uomo e il pianeta.”
È per far fronte a questa delicata situazione e per combattere lo status quo, che va a beneficio esclusivo di un ristretto gruppo di “super ricchi”, che annualmente i potenti del mondo si riuniscono nella “conferenza delle parti del UNFCCC”.
Tenutasi quest’anno a Parigi e presieduta dal ministro degli esteri francese Laurent Fabius, la conferenza ha avuto come obiettivo per la prima vota, in più di un ventennio, la volontà di stipulare un accordo vincolante sul clima. Il 12 dicembre 2015, centonovantasei Paesi hanno approvato l’Accordo di Parigi che, per entrare in vigore, dovrà essere però ratificato da almeno cinquantacinque governi entro aprile 2016.
Il punto cardine della discussione è stato la concorde volontà di creare soluzioni tali da poter man-tenere il riscaldamento globale sotto i 2°C e puntare, entro il 2100, a 1,5°C. Quest’accordo si basa su impegni volontari e individuali di ciascun paese e prevede controlli ogni cinque anni; per il momento, nel caso in cui non si riuscissero a rispettare i limiti previsti, non ci saranno sanzioni, ma sarà applicato un sistema di “name and shame”, ovvero un programma d’incoraggiamento, per gli inadempienti.
A questa conferenza erano presenti anche le economie della Cina e dell’India – ultime arrivate nel quadro delle grandi economie mondiali – che, per quanto siano tra i Paesi più inquinanti, potranno rientrare con tempi meno stringenti nel range fissato perché non considerate responsabili delle emissioni di gas serra durante il periodo d’industrializzazione. Si può, quindi affermare che queste decisioni costituiscono il primo passo verso il più grande obiettivo delle “emissioni 0” da raggiungere necessariamente entro la seconda metà del secolo per scongiurare calamità ambientali.
A Parigi si è discusso anche di economia: calcolando che azioni immediate tese a stabilizzare la concentrazione dei gas serra in modo da sfavorire cambiamenti climatici costerebbe all’anno circa l’1% del PIL mondiale (al 2050) e che i costi dell’agire sono insignificanti rispetto a quelli del non agire, le misure per contrastare il global warming “…sono anche la strada per affrontare la crisi e uscirne con un’economia green e a misura d’uomo” (E. Realacci). È quindi per il principio della differenziazione – che consiste nel riconoscimento, da parte dei Paesi sviluppati, della responsabilità storica per le emissioni di gas – questi si sono impegnati a finanziare la lotta al riscaldamento con cento miliardi annui da erogare interamente entro il 2025 e da innalzare gradualmente da qui al 2020. S’impegnano inoltre a ridurre le proprie emissioni e a fornire i mezzi per farlo. I Paesi poveri, per quanto è possibile, sono invitati a perseguire gli stessi obiettivi.
Sono stati presi importanti impegni anche sul fronte dell’energia pulita attraverso due iniziative: la prima, Mission Innoviation, vede venti Paesi (tra questi: Cina, India Indonesia, Brasile e USA) investire, nei prossimi cinque anni, venti miliardi di dollari nella ricerca alla Green Energy; la seconda, denominata Breaktrought Energy Coalition, vede invece finanziare la ricerca dell’energia pulita, nelle zone in via di sviluppo, da ventotto tra i privati più potenti del pianeta: tra questi Jeff Bezo e Jack Ma, rispettivamente fondatori di Amazon.com e Alibaba Group. L’Italia, da parte sua, stanzia invece tredici milioni di dollari agli Stati dell’Africa per le energie rinnovabili. Lo scopo di queste decisioni è quello di sostituire il protocollo di Kyoto (dicembre 1997) con un accordo altrettanto valido quanto “moderno”; il protocollo nipponico, infatti, è il documento più recente in merito al clima. Fu firmato diciannove anni fa da centottanta Paesi e la sua estensione è stata prolungata, dal 2012 al 2020, con l’accordo di Doha apportando ulteriori obiettivi nella riduzione delle emissioni P.
Nel frattempo è importante iniziare da noi con “Azioni locali per benefici globali” (J.M.Barroso): ridurre l’utilizzo di automobili private in favore dei mezzi pubblici, limitare l’uso di spray, non può essere che un intervento positivo a favore di quel sottilissimo velo che ci avvolge che è l’ozono.
Incentivare a razionalizzare l’uso dell’elettricità e del gas sarebbe altrettanto positivo. Usufruire della forza della Natura investendo nelle energie rinnovabili, attraverso dispositivi già collaudati come i pannelli solari o le pale eoliche o attraverso nuove invenzioni come la Diga del Vento, messa a punto dalla Cheatswood Associates non sarebbe sbagliato; oppure ricavare energia dai nostri scarti con dispositivi come il generatore di corrente inventato da Kelvin Doe, quindicenne della Sierra Leone.

Autostrada A14
Si può quindi concludere che, per quanto ci siano ancora questioni irrisolte, il COP21 è stato un in-contro abbastanza proficuo, per effetto del quale molte Nazioni hanno assunto responsabili impegni per contrastare il Global Warming consapevoli del fatto che: “Non possiamo consegnare ai nostri figli un pianeta divenuto ormai incurabile: il momento di agire sul clima è questo” (Barack Obama, agosto 2015), altrimenti ci ridurremo a respirare “aria in bottiglia” come già succede in Cina.

Lungomare di Napoli

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