Un uomo di versi e un uomo d’affari (11629)

Racconto di Francesco Toscani, 17 anni, di Como.

L’aria intorno a me è piena di fremiti e di sussurri, come se la natura stesse cantando di nascosto, solo per me. La voce del vento mi mormora all’orecchio centinaia di esili melodie, e ciascuna melodia porta con sé un mistero, una promessa. Ma per me non ci sono più misteri, non ci sono più promesse. Io morirò.

I rumori, le melodie vengono dalle gole e dalle ali di uccelli, cicale, grilli, da un torrente che scorre lontano, dagli alberi che fremono accarezzati dal vento, dal passo pesante dei mammiferi che camminano tra i cespugli. Io non vedo né i mammiferi, né il torrente, né il vento (e come potrei), né gli uccelli. Sento solo le loro voci, le sento intorno a me. Stanno cantando per me, penso. No, non è vero. Tutto è indifferente. La natura continuerà a cantare finché ci sarà. A nessun sasso importa della mia fine, a nessuna farfalla, a nessuna stella. Tutto è indifferente e presto lo sarò anch’io, perché morirò.

Anche la morte è indifferente. Arriverà che io lo voglia o meno e farà di me il niente. O magari no, ci sarà una luce e un volto benevolo mi dirà ‘Benvenuto’ e campi aperti, campi in fiore mi si apriranno. Ah, ma chi ci crede? No, morirò, non sarò più niente.

Questo è doloroso.

Perché mai sto scrivendo? Più lo vedo scritto, più gelo. Morirò. Io morirò. Però non del tutto, forse. Quello che ho fatto, come un seme, quello durerà. Qualcosa fiorirà dal mio corpo. Qualcosa resterà di me. Sarò nei volti di quelli che ho amato. Sarò nella mia vita, sarò in queste righe, sarò in quello che ho fatto – ah, ma che cosa ho fatto?

 

Non so se sia vero che in punto di morte ci scorre la vita davanti agli occhi. Certo, sapendo questo, sapendo che devo morire, è più facile pensare al passato, abbandonarsi al ricordo. È più facile pensare al passato perché il presente non è un granché e il futuro, come dire, è corto. E scusate se sono macabro.

Dico ‘scusate’ perché spero che ci sia qualcuno a leggere questo testo. Nessuno vive per se stesso e scrivere, in fin dei conti, è un atto di vita. Chi scrive vuole lettori, perché nessuno vuole che la sua vita sia solo lì, solo per se stessa. Nessuno vive per se stesso.

Però ci ho messo molto a capirlo. All’età di quindici anni ebbi a scrivere;

Non chiedo amici, pietà o perdono,

ma vivo amando solo il mio io;

a chi mi dice ‘Tu non sei Dio’

rispondo ‘Sbagli: invece lo sono’.

Un po’ arrogante, vero? Versi arroganti, e versi brutti. Ho scritto cose come questa per moltissimo tempo, negli stessi anni in cui suonavo la chitarra elettrica e mi davo arie da cantautore, per quanto fossi stonato. Sono stato un orgoglioso, ho creduto che avrei dato fuoco al mondo con le mie rime secche e i miei riff energici. Pensavo di essere un genio perché sapevo scrivere in metrica, ottonari, decasillabi, senari doppi. Cantavo cose come

Io ho forgiato la mia sorte

libertà è la mia natura

se tu mi prometti morte

non mi fai alcuna paura

credo solo in quel che dico

la mia musa è la follia

il Potere è il mio nemico

la mia strada è l’anarchia

e ci credevo veramente…

Ero ridicolo? Ma certo che ero ridicolo, e infatti ho smesso. Però non me ne sono mai pentito. Anzi, in me è rimasta sempre una traccia di quell’orgoglio, come fuoco sotto la cenere. Come fuoco sotto la cenere; quanto sono banale da uno a dieci? Nemmeno una similitudine originale in punto di morte. Per questo ho smesso di poetare, naturalmente; ma non ho mai smesso l’orgoglio. Quello, non puoi levartelo di dosso. Se nasci orgoglioso, orgoglioso morirai, e l’orgoglio porterà moltissimo con sé; ti porterà la rabbia, la fatica ad ascoltare gli altri, ti porterà a cadere e, in fin dei conti, ti farà solo. Ma ti darà, e di questo io non mi pentirò mai, la forza di scegliere. Ti darà la libertà. Alzarsi in piedi è un atto di arroganza; ma ti insegna a camminare.

 

Non che tutto questo abbia poi così tanta importanza, ora. E non solo perché i miei giorni stanno per finire. Qui non mi importa più di niente. Attorno a me ci sono gli alberi, steli d’erba bagnata mi si appiccicano tra le dita. Sento il profumo dei pini; corre nei miei polmoni come una mandria di cavalli al galoppo. Sento l’odore dei fiori. I miei rivali, i miei nemici. O forse no, non più. No, ma io e questi boschi, questi tronchi di legno, con le loro venature concentriche e la linfa che scorreva lenta nelle venature, siamo stati nemici mortali per tanto, tantissimo tempo. Io sono stato, anche, il Nemico dei Fiori. E hanno vinto i fiori. Sembra una favoletta moralistica; io avevo il progresso negli occhi, io credevo nell’industria, io sfottevo gli ambientalisti, io credevo che solo facendo circolare soldi si sarebbero creati lavoro, benessere, ricchezza, e con quelli uno stato solido e giusto, fondato su basi pratiche, concrete, fondato su basi solide per l’amor di Dio, che permettesse di dare a tutti libertà, istruzione e tutti quei diritti di cui i fricchettoni e gli idealisti si riempiono la bocca; io ero un uomo pratico, io ero un lavoratore, io avevo la testa a posto. Ed è per questo che io ho ampliato la mia industria e ho scaricato rifiuti tossici nell’ambiente, e ho preso il cancro.

Una fiaba moralistica, lo so che la mia morte sarà letta così. Chi credeva di piegare la natura è stato battuto e muore, così come si spegne una candela; la natura l’ha sconfitto senza neanche muovere un dito.

Io sto scrivendo queste righe anche per questo, per dire:Non è andata così.

 

Sono stato, lo sanno tutti, un industriale. Non ho voglia di entrare nei dettagli della mia sfolgorante carriera, perché non vi aiuteranno a capire la mia vita, e del resto se vi interessano non farete fatica a trovarli. Vi basti sapere questo; sono stato un grande imprenditore e un grande uomo d’affari. Sotto la mia guida la mia azienda ha attaccato il mercato e l’ha conquistato; il mio volto è stato il simbolo di carisma e fascino attorno a cui i miei lavoratori si sono radunati, come tanti agguerriti figliocci attorno al loro papà. La forza di un’azienda sta nella coesione e nella compattezza di tutti i lavoratori, nel gruppo, ma ogni gruppo ha bisogno di qualcuno attorno a cui raggrupparsi. Serve qualcuno a cui guardare quando le cose vanno male, qualcuno che riconosca la direzione da prendere. Serve, in altre parole, un capo, e io ero nato per questo…

Il mio cuore batte, freme dentro di me mentre fisso l’orizzonte, e penso; sono nato per fare il capo. Ah, questo ricordo è ancora forte, in me… Ho vent’anni. No, ventidue. Ho mollato l’Università. Ho una donna molto bella, a casa, che mi aspetta. Sono in piedi e guardo il sole che tramonta. Alle mie spalle, gli ultimi colleghi, gli ultimi lavoratori che se ne vanno. Mi guardano. Ho appena compiuto una grandiosa performance, ho appena tenuto testa al Capo, al più vecchio, subdolo, e bastardo tra gli imprenditori, l’ho guardato negli occhi e gli ho detto: Lei si sbaglia. E questo vecchio tremendo, che ha affogato i suoi nemici quando gli attraversavano la strada, questo vecchio che ha vinto più battaglie di ognuno di noi, questo vecchio mi ha ascoltato, e poi ha detto:Hai  ragione.

Non sono il capo dell’azienda. Non sono ancora nessuno, solo un creativo riciclato dalla Facoltà di Beni Culturali. Ma presto lo sarò. I miei colleghi, persino i miei superiori, mi guardano ammirati e un po’ spaventati. In me hanno visto un’audacia che a loro manca. Mi hanno riconosciuto per quel che sono; qualcuno attorno a cui possono raccogliersi. E io ora sono qui, in piedi, sapendo di essermi messo in gioco e di avere vinto. Sono in piedi, calmo, fissando fuori dalla finestra e pensando:Io sono nato per comandare.

Ed è così. Di lì a un paio d’anni, sarò una delle figure più importanti dell’azienda. Di lì a cinque, il capo morirà, l’azienda andrà al figlio[1] e io ne fonderò una nuova, mia.

E via, alla conquista del mondo.

 

Dicono che tutto, tutto quel che siamo, tutto quel che diventiamo, si trovi già, in embrione, nella nostra infanzia. Dicono che i primi sei o sette anni della nostra vita contengano già, beh, la nostra vita. Ma per me non è così. Quello che sono, quello che sono stato, quello che avrei potuto essere; tutto questo non si trova nella mia infanzia (o forse sono io che non ce lo trovo, non cambia molto) ma alla fine della mia adolescenza; lì, tra i quindici e i ventidue anni, stanno la mia vita, il mio cammino, il mio viaggio, e forse anche la mia fine.

I miei quindici anni rock! Difficile dimenticarseli. Andavo male a scuola, e ci soffrivo parecchio; fino ad allora ero stato timido, impacciato, e dolente; dolente in una maniera soffusa, dolente di fuoco sordo e basso, dolente perché la libertà che sentivo, che respiravo quando ascoltavo musica o leggevo[2] non era nel mio mondo, vinta com’era dalla pesantezza, dall’opacità di scuole, formalità e convenzioni varie. Ero debole, e me ne rendevo conto. Vedevo i miei coetanei belli, disinvolti e sciolti, col futuro che sfavillava tra le dita, voti molto più alti dei miei senza segno di stanchezza, le braccia cinte attorno alle vita di ragazze con cui non avrei mai avuto il coraggio di parlare, e sentivo di essere, a confronto con loro, un perdente, uno sconfitto, uno che sempre sarebbe rimasto indietro nella corsa della vita. Avrei potuto deprimermi, o cercare di essere come loro; ma l’orgoglio, lo stupido orgoglio…

Fu così che imbracciai penna e chitarra e mi misi a scrivere, suonare e anche cantare, quando trovai il coraggio. Ne composi parecchie, di canzoni – ma forse non è giusto chiamarle così; c’era un breve componimento in un metro cantabile, settenari o ottonari, un bel riff a sottenderlo, dopo un minuto e un paio di strofe il pezzo finiva e ci piazzavo una coda strumentale semi improvvisata. Nulla di che, né i brani musicali né le poesie vere e proprie, quelle senza musica. Ma fu con quelle che cominciai a definire la mia personalità, a capire quello che ero. A definirmi, e a definirmi in lotta, in opposizione a tutti quelli che una volta, in un orrendo componimento incompleto, definii

Guardiani avidi

d’un mondo statico

uomini gravidi

di senso pratico.

Mamma mia, solo ora che ci ripenso  mi rendo conto di quanto scrivessi male… Ma scrivere era importante per me, importantissimo. Era la mia vita. Io mi pensavo così, per versi, in versi. Io pensavo per sentimenti, per canzoni, per ardore, per lirica…

Chissà com’è che sono finito dall’altra parte?

Perché per quanto riguarda poi la mia vita, la mia carriera come imprenditore, beh, non so se io sia stato tra i guardiani avidi, ma di certo Uomo gravido di senso pratico è una definizione che mi si addicevafin troppo. Come imprenditore, come uomo, sono stato ben lontano dalla poesia. No, ora che ci penso forse questo non è del tutto così vero. Mi è sempre piaciuto leggere, ho continuato ad amar la musica. Ma nei miei anni di gloria ho smesso di guardare alla poesia, alla musica come alla patria della libertà, come alle riserve di energia e bellezza da contrapporre al grigiore. Non ho perso la forza, non ho perso l’invettiva, non sono sbiadito; ma ho trasformato quella forza che mi animava in qualcosa di costruttivo, di sano – ho conservato il fuoco, lo giuro; ma ho smesso di bruciare.

 

E per anni ho marciato, e la mia azienda mi ha seguito. Sono stato il centro, il motore, l’entusiasta in periodi di vitalità e forza, in periodi in cui la creatività ci scorreva nelle vene e sprizzava dai capelli; ho corso coi miei uomini verso il successo e li ho lasciati scatenarsi, sperimentare, arricchire se stessi e noi. In altri periodi, periodi di crisi in cui da un momento all’altro sembrava dovessimo perdere tutto, ho stretto i denti e mi sono portato sulle spalle il peso delle fatiche, delle paure di tuttii miei dipendenti – sono stato un capitano nella tempesta… Di nuovo un’immagine banale, eh? Ah, non basta scriver versi per essere poeta!

Ma d’essere poeta, l’ho creduto per tanto. Quando ho smesso, non lo so. Penso nei primi anni d’Università. Mi importa molto di più un’altra faccenda; perché ho smesso? Questo me lo chiedo ora, ma non è certo la prima volta. Io ho centinaia di ricordi della mia carriera da imprenditore. Ricordi di volti, di espressioni; espressioni di speranza, di entusiasmo, di gioia, di stupita tristezza, di sfida, di vergogna, di sincero pentimento. Ricordi di gioia, di urla di felicità – ma questi sono rari. In quasi tutti i miei ricordi sono calmo, concentrato. Ho le tempie che mi pulsano. Due sono le situazioni ricorrenti; o sto convincendo qualcuno, o sto pensando al futuro. Chi sto convincendo? Un po’ tutti. Capi, colleghi, finanziatori, dipendenti. Sono immobile, il mio corpo è rilassato, gli occhi puntanti sull’interlocutore, la bocca semiaperta. Devo colpire, penetrare le sue difese – lo devo convincere, per Dio. Non è mai facile ed è sempre gioia, quando ci riesco. Ma una gioia composta, trattenuta; senza mostrarlo, senza gridare, senza danneggiarmi, sento il gusto dell’adrenalina che mi attraversa il corpo, che mi freme nei muscoli.

E quando penso al futuro, è sempre in salita. C’è sempre un nuovo obiettivo da raggiungere. C’è sempre un po’ di più da ottenere.

Ecco, ho trovato la parola; non sempre sono felice, a volte ci sono tensione, paura, rabbia – non sempre sono felice; ma in tutti questi anni, giorno dopo giorno, sono sereno. Ed è impagabile; la soddisfazione di aver fatto il mio dovere.

Ma in tutti questi momenti di serenità, di gioia, di felicità, in tutti questi momenti in cui provo la gioia del comando, in cui sento che i miei uomini hanno fiducia in me, in tutti i momenti in cui sento che i miei avversari hanno paura di me, in tutti i momenti in cui dico Ho fatto il mio lavoro, in tutti quei momenti in cui dico; Ho vinto, in ciascuno di quei momenti, senza eccezione, c’è una voce nella mia testa, una voce un po’stupita, delusa, una voce femminile cristallina che mi chiede:E la poesia?

 

Perché ho smesso? Per anni mi sono giustificato, dicendomi che avevo capito cos’èla vera poesia, e che non l’avrei mai raggiunta. In parte era vero; a un certo punto, ti rendi conto dei limiti che hai, e del fatto che non li supererai. Per quanto puoi andare avanti con Guardiani avidi/d’un mondo statico, o cose del genere? Finché hai la scusa della giovinezza, ovviamente. Poi non più. Fu anche per questo che smisi di scrivere (così come smisi di suonare capendo tutto quel non sarei mai stato capace di fare). Ma fu questo il vero motivo? Oggi non lo so più. Io avevo, in me, le due nature dell’Uomo, il Poeta e l’Imprenditore, l’uomo pratico e l’idealista – sembra facile, così, vero? Così, scritto sulla carta, pare qualcosa di perfettamente definito; come se in me vi fossero state due figure in contrasto, ben distinte e naturalmente avverse, e la mia testa altro non sia stata che un campo di battaglia, un terreno di scontro. E invece non è così; nella mia poesia, c’era forse anche qualcosa di pragmatico, di imprenditoriale – e dopotutto, non è stato grazie ai miei versi facili, al mio atteggiamento da poeta, se al Liceo ho iniziato ad avere popolarità e ragazze? Se mi sono fatto più amici? Non è questo uno scopo basso? Uno scopo terreno, quasi tecnico? Chi si crea un’immagine non sta forse vendendo, pubblicizzando se stesso? E poi il mio essere imprenditore aveva molto di poetico in sé… Ma basta, sto sproloquiando. Non voglio che le mie ultime prole siano una monodia annacquata. Quello che voglio dire è solo questo; io sento, se ripenso alla mia vita, che sono stato un imprenditore e un vincente, ma in me c’è sempre stato qualcosa dello sconfitto, dell’infuriato poeta lirico; queste mie due nature sono state confuse assieme, erano l’una il rovescio dell’altra –erano connesse, a modo loro. E poi una delle due ha prevalso, e poi… Ma sto correndo troppo. Fermiamoci qui; una delle due ha prevalso.

 

Per ventitré anni e otto mesi ho lavorato e lavorato. Ho incontrato politici, economisti, intellettuali, grafici, pubblicitari, giornalisti, tutori della legge, vecchi squali, giovani promesse e, in mezzo, masse di miserabili, di uomini grigi dai volti anonimi, cui la vita non aveva riservato posti d’onore – uomini spenti. Ho vissuto con una ragazza molto bella fino a ventisette anni, poi ci siamo lasciati; più tardi avrei preso moglie, ma ho divorziato pochi anni dopo, e poi varie donne, fidanzate e compagne di vita – ma perlopiù sono stato solo e anche in questo ho visto un nonsoché di poetico; e ho conosciuto molti ambientalisti. A loro non ho mai dato troppa importanza – erano bravi ragazzi, perlopiù, ma ingenui, troppo poco cinismo per capire davvero la vita, troppe illusioni e buona volontà per servire a qualcosa, per parlare alla gente – alla gente piacciono i bastardi carismatici, questo l’ho imparato. Gli ambientalisti… Eravamo nemici. Ci siamo scontrati quando ormai avevo più di trent’anni, l’adolescenza era bella che morta e io stavo diventando sempre più importante e popolare nel Nord Italia, tra la Lombardia e il Piemonte. Mai stati un serio ostacolo, non erano abbastanza svegli e io ero più furbo e veloce, e non mi preoccupavo troppo della moralità di quel che facevo. Non ho mai fatto denaro sporco, sapete? Ho riso in faccia a un camorrista che mi offriva appoggio, una volta. Io volevo uno stato solido e la corruzione è quel che più se ne allontana. Politici corrotti, riciclatori di denaro, mafiosi, azzeccagarbugli… Sempre stato lontano da quella feccia. Non sono un moralista, ma con certe zecche non volevo aver nulla a che fare. Ciò non toglie che io abbia infranto la legge, e più di una volta. Ora non ho voglia di parlare di questo; l’ho già detto, non mi interessa entrare nei dettagli, sappiate solo che ho scaricato nell’ambiente rifiuti tossici. Questo… Questo è stato un errore. Non posso scusarmi per quello che ho fatto. Ho distrutto delle vite e non mi assolve il fatto che tra queste ci sia la mia. Ho… Ho fatto del male. Non lo posso negare. Non è una scusa, però… Però non l’ho fatto per cattiveria. L’ho fatto senza pensare. Non ho badato ai rischi, li ho liquidati con una risata, ho riso di chi mi avvertiva. All’inizio, almeno. All’inizio era solo spregiudicatezza. Il potere, la forza, la possibilità di essere capo; queste cose ti cambiano. Queste cose ti entrano dentro, e piano piano, lentamente, giorno dopo giorno, distorcono la tua capacità di giudizio – ti portano a pensare, così lentamente che nemmeno te ne accorgi, che tutto ti sia concesso. Ti portano a ergerti sul mondo come pensando: è mio… All’inizio, non ho pensato. Un piccolo uomo accecato, ecco quel che sono stato.

 

Poi i nodi sono venuti al pettine. Avevo… Cosa, trentott’anni? Trentanove? Ed è cominciato tutto. La mia azienda diventava sempre più grossa, e io sono tornato al mio paese. Non sono nato in città, vedete. Sono nato in un paesino perfettamente industrializzato, ma piccolo, circondato dalla campagna, ma molto vicino ai monti – questi stessi monti boscosi che ora mi stanno attorno; che cantano attorno a me, teatro della mia fine. Sono tornato per stare vicino alla mia famiglia, avevo appena divorziato ed ero triste. Sono tornato tra i monti.

 

Anche questo mi ricordo; ho trentanove anni da pochi giorni. Sono in piedi, e guardo le foreste. Gli alberi. E li guardo con rabbia. Da tantissimo tempo non provavo una rabbia così – metafisica, irrazionale, senza nulla di pratico.

Guardo gli alberi con rabbia.

Dentro di loro, insetti scarafaggi cervi volpi passeri vipere ragni scoiattoli tordi cuculi uccelli di ogni tipo pipistrelli trote; tutto si evolve e muta, cresce, lotta, marcisce, muore. Tutto si sfalda, tutto collassa. È allora che lo sento; non sono più in sintonia. Non amo più quei boschi, non sono più nel flusso, nel circolo della vita. Da tantissimo non venivo qui e ora lo sento; qualcosa si è rotto. Ho perso il contatto con tutto questo, ho perso la natura, il volo, ho perso quel che mi rendeva speciale, insomma perché ci giro attorno, perché non lo dico? Ho trentanove anni e lo capisco solo ora; io non sono più un poeta.

E la poesia?

Beh, ma è valsa la pena rinunciare, no? Sono all’apice del successo, ho il mondo ai piedi – anzi, no, avere il mondo ai piedi vorrebbe dire solo essere compiuto, aver finito la strada, io sto mettendo il mondo sotto i piedi, io sto salendo, sono nel cuore della mia vita, sto forgiando il mio destino, ora tutto dipende da me, non sarò mai più vivo di così! E poi diciamocelo, per cosa dovrei cedere? Per la poesia? Serviva solo a farmi star male, a mettermi in rotta col mondo, a mandarmi in crisi – l’arte serve a rompere il legami, a favorire le crisi, la morte, la marcescenza, l’arte è il segno dell’indebolimento, l’arte è debolezza, infiacchimento… E gli alberi, la natura, guardali lì; nessun progresso, né evoluzione. Tutto muore e nasce e cresce e lotta e invecchia e muore e nasce e cresce e lotta e invecchia e muore e nasce e cresce e lotta e invecchia e muore e nasce e cresce e lotta e invecchiae muore e nasce e cresce e lotta e invecchia e muore e nasce e cresce e lotta e invecchia e muoree nasce e cresce e lotta e invecchia e muoree nasce e cresce e lotta e invecchia e muore e

E la poesia?

E la poesia l’ho persa e, mio Dio, ora sono un uomo potente e

e gli alberi sono lì e

a

loro

non

importa

niente

di

me!

Vorrei gridare ma non lo faccio. Mi giro e ribollo d’odio. C’è una voce nella mia testa, una voce femminile e cristallina.

E la poesia?

So a chi appartiene quella voce.

 

Avevo sedici anni, cominciavo a guadagnare in carisma, suonavo spesso in pubblico. Lei l’ho conosciuta allora e no, non dirò neanche il suo nome e non vi dirò cose sufficienti a trovarla. Ci si innamora più di una volta nella vita, in fin dei conti, ma solo i poeti si sanno innamorare sul serio, i poeti e forse i santi. L’amore è un concetto talmente riciclato che per parlarne bene ormai bisoga essere dei geni, quindi neppure ci provo. Fidatevi sulla parola; ero davvero innamorato e come da copione è stato un amore sin troppo platonico. Solo due volte l’ho baciata; una ero ubriaco e non me la ricordo, e l’altra non è stata un granché.  Forse è stato giusto così, forse se fossimo stati assieme si sarebbe rovinato tutto –oddio, lo so che cado nel luogo comune, ma che posso fare? Non sono Dante. Sapete, ora credo che darei tutto, pur di esser stato io a scrivere;

Beatrice mi guardò con li occhi pieni

di faville d’amor, così divini

che a un tratto mia virtute diè le reni

e quasi mi perdei con li occhi chini.

Sia come sia, io e Lei siamo stati amici fino a che ho mollato l’Università. Lei era molto ironica, brillante, con un’aria sempre tra il sognante, l’addormentato e il divertito – era quel tipo di ragazza che oscilla tra ingenuità e disinvoltura con facilità. Scriveva molto, ma non era brava, per nulla. Forse se si fosse impegnata di più… Ma non fa niente. Era brava a dipingere, invece, e a ballare. A ballare me l’ha insegnato lei, ma ero impedito. Aveva degli occhi molto belli[3], grandi e verdi.

È per colpa sua se associo i fiori alla poesia, sapete?

 

Ho diciassette anni. Lei è tornata ieri dalle vacanze. Fuma sulla veranda di casa sua. Accovacciato per terra, la guardo. È un bel momento e lei parla, e dice cose bellissime. Sta parlandomi della vita e delle stelle, e di come è guardando le stelle che l’uomo ha iniziato a pensare “Chi le avrà messe lì?” ed è diventato qualcosa di diverso dagli altri animali.

Ed è così che è nata la bellezza, dice lei. E la bellezza è quello che amo e che ami anche tu.

Io non amo niente, dico io. Guardalo che fa il cinico, dice lei.

Ed è amando la bellezza che abbiamo iniziato a guardare. Ad amare le cose. A tenerle in mano sorridendo, amandole tra le nostre dita.

Ha fili d’erba tra i capelli.

Poggia a terra la sigaretta.

Abbiamo iniziato ad amarci, e ad amare quel che ci stava attorno.

E ad amare la vita, perché è fragile e tenera, e finisce, ed è bella.

E così se vuoi saper qualcosa di un uomo.

Raccoglie le mani a coppa. Ha preso qualcosa dal terreno? Non riesco a vedere.

E quindi se vuoi sapere qualcosa di un uomo, se è un uomo sporco e chiassoso, arrogante, oppure un uomo di acqua e di aria, un uomo di musica, un uomo bello, guarda come tratta i bambini, o i gatti, o gli insetti, e soprattutto i fiori.

Noi siamo Amici dei fiori dice.

E mi vien da ridere, perché è una cosa che fa un sacco New Age, ma mi fermo, perché il momento è fragile e basta poco a rovinarlo, e lei è bella, e ha ragione, lo so.

Apre le mani e gli scarafaggi le zampettano sui polsi.

“In tutte le verità naturali vi è qualcosa di meraviglioso”.

Cita Aristotele.

Com’è bella.

 

E a trentanove anni, la sento lontana, e ribollo di odio per tutta la poesia e tutti gli stupidi alberi di questo mondo.

 

Ora il mio lavoro lo faccio con più furia. Ci metto un impegno, una rabbia che non ho mai messo altrove. Ma rende, incredibilmente. Ora siamo decisamente al di fuori della legge, e io infrango le norme sul rispetto del territorio quasi con gusto feroce. Ora mi sono arruolato, sono il soldato di un esercito di acciaio, di forza e potenza e di furia elettrica. Ora rido dei poeti, e soprattutto pugnalo il verde. Con poetica ferocia. Lo sento che freme. Piccoli corpicini che fremono e muoiono per le mie gesta. Alberi e muschi e funghi che marciscono. Forza. Forza.

Il mondo è mio. Tutti ridono alle mie battute. Ho messo su pancia, io sempre secco. Sono ricco. Sono in salita. La gente mi sorride. I miei nemici mi temono. I miei nemici ringhiano nella polvere. Sotto le mie scarpe.

Le associazioni ambientaliste mi attaccano con più forza. Le falcio. Le disperdo. Sono una volpe nel pollaio. Non hanno speranza.

Cresce la mia influenza. Molte persone mi stringono la mano.

Altre persone, persone davvero potenti, persone che reggono il cuore di questo paese, mi sorridono e mi guardano con interesse. Sono vecchi e sono spregiudicati. Amano chi è forte, i giovani aggressivi li divertono. Vecchie volpi. Amano i lupi. Loro hanno tutto quel potere che vorrei, che adorerei avere. E mi notano.

Il mio successo aumenta.

La mia crisi anche.

Tutto in me si incrina.

Ma nessuno lo sa.

Cementifico, asfalto. Sono coinvolto – io solo, non la mia azienda – nella costruzione di un’autostrada.

Alberi muoiono e io sono sempre più forte. Al diavolo la poesia. I giornali parlano di me. Qualcuno mi accusa ma la legge sta lontana. Nessuna denuncia. Non devo insabbiare né corrompere nessuno. Ma sono potente, ormai. E i potenti non si attaccano, non a questo mondo. Mi sto sporcando. Mi sto corrompendo.

Ma non mi fermo.

Non mi fermo finché un giorno mi alzo, mi guardo allo specchio, lo stacco dal muro e lo lancio fuori dalla finestra. Si sfracella sotto casa.

È il troppo lavoro, mi ripeto. È il troppo lavoro.

Ma non è così.

 

Poi un giorno sto camminando. Torno da una giornata di lavoro gloriosa, sono giù di giri, ma mentre cammino comincia a scendere l’adrenalina. Come un pulsare sordo, la tristezza mi risale al petto. E così comincio a camminare, con gli occhi bassi, e guardo il marciapiede. Asfalto… È questo quello che faccio, adesso; io asfalto, io cementifico. Io costruisco città, imprimo alla gente un moto; creo vortici di linee centrifughe, metto in moto capitali e forza lavoro, sono il cuor pulsante dell’economia. Io penso a cosa fare, lo faccio, e grazie a me la gente si muove. Io sono ancora un poeta, in fin dei conti; io infrango l’ordine della natura per reinventarlo coi miei atti, io rinnovo il ritmo del cosmo e al posto del lento sospirare, del cheto oscillare dei fiori, delle onde del mare, di tutte le stelle, io creo forza, io spingo, io invento una  nuova velocità scattante, industriale, scagliata verso il futuro…

E mentre sono perso in questi pensieri, il mio sguardo cade su una crepa nell’asfalto. Lì il marciapiede è rotto, il metallo si è frantumato aprendosi, chissà come, su uno strato di terra sottostante; e lì, fra i frammenti di terra, dal sottosuolosi sporge un fiore. È piccolo, gracile, il figlio handicappato di Mamma Natura; è un patetico, dolcissimo germoglio che spinge all’aria aperta, con stolida tenacia sanchopancesca, i suoi quattro petali rosa, con fare eroico e piagnucolante.

Mi fermo, e alzo la testa. Sopra di me il cielo è coperto dalle nubi, ma io lo immagino pieno di stelle. Con calma, passo dopo passo, torno a casa. Lì entro, mi siedo al tavolo da lavoro, afferro dei fogli, una matita tozza, e mi metto a scrivere. Scrivo in versi, lotto con le parole. Sillaba dopo sillaba, creo un nuovo ritmo. Scrivo infiammato, mi faccio schifo, cancello e ricomincio. A fatica.

Un’ora e mezza dopo, mi alzo. Gli endecasillabi stanno lì, piccoli parti del mio dolore. Sono brutti, se li pronuncio a voce alta mi vien la pelle d’oca, ma non importa. Mi risiedo. Sono stanco. Poggio la testa sul tavolo, e dormo.

Quando la mattina dopo mi sveglio, non vado al lavoro. Vado in questura e, con calma, confesso tutto. Sciolgo la mia azienda; smetto di comandare. Dispersi, i miei lavoratori voleranno via, germogli nella bufera. Ma io sono calmo.Neanche un mese dopo, so di avere un cancro.

Ma mi sento poeta.

 

Ho ventidue anni. Il giorno prima, hocompiuto una grandiosa performance, ho tenuto testa al Capo, al più vecchio, subdolo, e bastardo tra gli imprenditori, l’ho guardato negli occhi e gli ho detto: Lei si sbaglia. E questo vecchio tremendo, che ha affogato i suoi nemici quando gli attraversavano la strada, questo vecchio che ha vinto più battaglie di ognuno di noi, questo vecchio mi ha ascoltato, e poi ha detto:Hai ragione.

Lungo il marciapiede, fuori dall’Università che ormai ho lasciato, lo sto raccontando a Lei. Che è davanti a me e non mi guarda, ma so che mi ascolta.

“È fatta, ormai” le dico. “La mia sfolgorante carriera è appena iniziata!”

E lei si volta, gli occhi di luce spalancati, e mi chiede, e la sua voce rieccheggerà per sempre nella mia testa;

“E la poesia?”

 

Ho quarantaquattro anni, sono solo in un prato, con questi fogli e questa penna in mano, e sto piangendo.

 

Ma, mio Dio, sono felice. Alla fine mi sbagliavo, lo sapete? Non c’è stata nessuna lotta. Io e questi alberi, questi fiori non siamo mai stati nemici. E non è neanche vero che la natura è indifferente.

Questi alberi, i fiori, le stelle, non sono indifferenti. Non finché ci sarò io a guardarli. Io sono parte di loro, lo sapete? Come noi tutti. Noi li guardiamo, e loro vibrano. Loro vibrano della meraviglia che noi proviamo. Ho fallito come poeta, ho fallito come imprenditore e forse, mio Dio, ho fallito come uomo. Ma ho riacquistato la scelta. Ho riacquistato l’amore. E ho riacquistato la meraviglia.

L’Universo si estende in ogni dove. Le stelle ruotano assieme ai mondi. Tutto è pieno di luce…

Attorno a me il vento canta. Forse, chi può dirlo? Canta davvero per me.

I prati nascono e vivono. Tutto si muove e vive. Tutto quel che vive muore. Ma tutto quel che muore ha vissuto. Ogni cosa si muove e l’Universo oscilla, sussurra, calmo come le onde che si infrangono sul mare. Ho ancora un paio di mesi, e poi tornerò alla terra. Fiori cresceranno su di me.

Che potrei chiedere di più?

 

 

Sono passati due giorni. Ora sono a casa. Ho appena finito di ricopiare sul computer questi venti fogli scritti a mano l’altro ieri, in mezzo a un prato. Che dire? Mi sento vuoto, mi sento stanco, mi sento bene. Non so… Forse sbaglio ad aggiungere ancora qualche riga. Forse il mio testo dovrebbe chiudersi con Che dovrei chiedere di più?, e restarsene lì, assieme alla mia vita, con le sue luci e le sue ombre. E che ognuno giudichi un po’come vuole.

Eppure, eppure cerco ancora di trarre un senso da quel che ho fatto. Una morale. Un insegnamento… Ma no, non c’è, io non scrivo queste righe per dirvi pensate questo di me – per dare una lezione.

Però almeno una cosa, un’unica cosa, voglio dirla.

La mia vita è stata quel che è stata; se si sia svolta nel bene o nel male, non sta a me dirlo. Ma almeno ora, almeno ora che sto per morire, io la dedico a voi. Se non posso chiudere, se non posso trovare un senso alla mia vita – almeno scrivendo, scrivendo di me, ho scritto per voi. Voi che mi avete letto, voi uomini di cui non vedrò i volti; leggete le mie parole e traetene l’insegnamento che vi pare e ricordate; voi siete vivi. Io presto non lo sarò più, e non voglio che la mia vita non serva, non sia servita a niente. Per questo lo dico a voi, a voi tutti, stringetevi le mani. Certo, serve l’orgoglio per imparare a camminare e all’orgoglio serve la solitudine. Ma non si può camminare da soli. Stringetevi le mani. Voi che mai conoscerò, e voi che ho conosciuto, che ho tradito, voi che avete lavorato per me – ah, io sto qui a piangermi addosso,  ma siete voi, le vere vittime di questa storia. Io vi ho fatto balenare un sogno di gloria davanti agli occhi, e ve l’ho strappato di mano. Io vi ho tradito, e non perché ho sciolto la mia azienda. Vi ho tradito perché vi ho usato per me, per rinnegare quel che ero stato, per fare a pezzi i nostri nemici – se vi stringete le mani, sarete forti; ma, ve ne supplico, non siate schiavi di quella forza. Forse…

Mio Dio, forse è in questo che ho sbagliato?

Nell’avere visto la vita, con tutta la sua dolcezza, le sue ombre, le sue fragilità, con tutta la sua debolezza, e nell’averla colpita con la forza che mi ardeva dentro?

Forse il mio errore è stato di usare la forza per schiacciare la vita, quando potevo usare la forza per proteggere quella vita?

Oddio, che buffo; allora forse per voi, per voi che siete stati con me, forse per voi c’è un insegnamento dopotutto…

Amici miei. Compagni miei. Figlioli miei…

Sentite la forza che stava in me? La sentite nelle mie parole?

Prendete le mie parole e costruite un mondo migliore.

 

Ma adesso basta, per davvero. Ora devo andare. Ho tante cose da fare e c’è una persona che voglio vedere.

Amici, nemici, madre, padre, e perdio anche tutti voi sconosciuti che leggerete questo testo;

Voi mi mancherete.

Addio.

 

 

 

La gioia è arsa, è bruciata, è finita,

ora io muoio e in me muore ogni cosa:

sola mi resta una luce ingrigita,

solo la strada e la notte impietosa.

La mia bellezza è crepata e marcisce,

l’antico orgoglio è da oggi il mio inferno;

come ogni giorno alfin cala e finisce,

cala la gioia e mi resta l’inverno.

Ogni speranza ora deve crollare,

ogni conforto è negato, abbattuto;

eppure ancor mi ritrovo a sperare;

e se non fosse ancor tutto perduto?

Certo ogni gioia è bruciata, finita,

certo io muoio e in me muore ogni cosa.

Ma ti può ancora baciare la vita,

se sa fiorir tra l’asfalto una rosa.



[1] Ovviamente, non riporto i nomi di queste persone, né di quell’azienda, né degli altri miei compagni di vita. Non vi sarà difficile, se lo vorrete, scoprire a chi mi riferisco, ma in questo caso ve lo sconsiglio. Si tratta di gente fuori dal giro da parecchio, e merita una vecchiaia in pace.

[2] Nulla di esteticamente elevato; hard rock nelle cuffie, libri di fantascienza in mano, e uno pensa di aver trovato il Paradiso Perduto. L’adolescenza è così.

[3] Gli occhi son sempre stati la cosa che mi colpiva di più, nelle ragazze. Ragazze sciocche sì, o non tanto belle, o troppo magre o troppo grasse, ma non ho mai baciato qualcuno con degli occhi insignificanti.

 

cod. conc. 0603182408


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